II.

La letteratura religiosa del Duecento

1. Istituzioni civili religiose del Duecento

L’ideale e la vita religiosa sono elementi fondamentali nella civiltà del Duecento, anche se questa è ben diversamente ricca e multiforme di quanto potesse una volta apparire in una visione tutta e solo mistica, ascetica, candida di un secolo che viceversa si mostra cosí pieno di vitalità e maturità. Ormai l’economia italiana è in pieno sviluppo, sia come industrie artigianali, sia come commercio interno ed estero. Prosperano cosí i traffici e le città sono da tempo ritornate ad essere centri di vita economica e politica e ad organizzare intorno a loro la stessa campagna, una volta asservita direttamente al castello feudale e all’economia curtense (cioè ristretta al castello stesso).

La nuova istituzione del comune si è ormai diffusa in tutta l’Italia settentrionale e centrale, promovendo cosí una intensa vita politica cittadina e una pericolosa, ma pur vitale, gara e lotta di potenza fra i comuni maggiori, complicata dal loro rapporto con la Chiesa e l’Impero, con il partito guelfo e ghibellino: donde anche una crescente vitalità culturale e letteraria che ha la sua prima base concreta nelle necessità politiche e spirituali delle comunità cittadine, delle correnti ideologiche e politiche in lotta, dei nuovi ordini religiosi e, in genere, di una popolazione in forte movimento economico e spirituale, dei suoi strati e classi tutt’altro che rigidi e fra loro incomunicabili, con un allargamento progressivo di cultura e di esigenze espressive e poetiche che investe a poco a poco anche le classi piú umili.

Nell’Italia meridionale, dove la politica sveva porta alla formazione di un forte regno unitario, che nei secoli successivi sarà designato come il «Regno» per antonomasia, la cultura e la letteratura tendono, d’altronde, ad accentrarsi intorno alla corte e alla curia, prendendo con Federico II di Svevia un carattere cosmopolita e mondano che non si perde neppure quando il regno passa nelle mani degli Angioini e la Sicilia si distacca da esso sotto la guida degli Aragonesi.

Ma, come dicevo all’inizio, l’aspirazione religiosa è certo fondamentale e centrale in questa civiltà che, pur nella sua prepotenza vitale, nel suo concreto esercizio della vita in tutte le sue forme, sente sempre che la vita è dominata da Dio e che il suo valore risalta solo se messo in rapporto con una vita eterna, con un giudizio definitivo, con una realtà superiore alla quale quella in cui si vive in terra non può essere che preparazione, pellegrinaggio, ché la sua mèta è il cielo.

Se anche, certo, gli uomini del Duecento non vivevano tutti e continuamente in questa prospettiva e magari anzi molti di essi vivevano anche vite dissipate e viziose, nella mentalità generale era forte la coscienza piú o meno chiara o vaga del relativo valore della vita terrena e della sua subordinazione a quella eterna a cui era essenziale la religione.

E d’altra parte la vita religiosa aveva una sua varietà e ricchezza di gradazioni e direzioni, che la rendevano tanto piú capace di penetrare nella vita di tutti e si ponevano in forte relazione con elementi di rivendicazioni e aspirazioni di rinnovamento sociale e civile, specie in quelle sette eretiche che piú energicamente esprimevano insieme esigenze di un cristianesimo piú vicino alle sue origini, piú puro e libero dalla mondanizzazione della Chiesa, ed esigenze di giustizia, di uguaglianza, nella povertà, nella rinuncia al superfluo e alla ricchezza corruttrice e diabolica.

E se ciò non avveniva davvero in una contesa pacifica (e presto la Chiesa cercò armi di repressione violenta con l’Inquisizione domenicana e il ricorso al braccio secolare dei comuni e dei principi contro gli eretici), certo la vita religiosa duecentesca si presenta estremamente ricca ed autentica, tutt’altro che conformista e convenzionale. Tanto piú che anche nel seno della stessa ortodossia molte delle esigenze, che le eresie portavano piú violentemente in luce, trovavano pur modo di esprimersi almeno in forme piú caute e meno apertamente ribelli, come fu il caso di san Francesco e del suo ordine prima della scissione in conventuali e spirituali (i primi piú moderati, i secondi piú rigidi e sconfinanti a poco a poco in forme direttamente ereticali).

2. San Francesco

È proprio con San Francesco d’Assisi (1182-1226) che la vita religiosa ducentesca mostra piú chiaramente a noi il suo vigore schietto, le sue storiche ragioni di vitalità, il suo rapporto con tutta la vita del tempo, e trova insieme la forza di esprimere poeticamente, di alimentare una prima realizzazione poetica in volgare. E l’uso del volgare (nel caso di san Francesco l’assisiate portato però ad una sua forma piú illustre, depurato delle forme piú rozzamente dialettali, avvicinato il piú possibile alla regolarità latina) ben significa due cose importanti: la destinazione ad un pubblico che poteva essere anche ignaro del latino (mentre non ne era certo sprovvisto il santo, che conosceva anche certamente il francese), la volontà del santo di esprimersi in un linguaggio ormai sentito come maturo e insieme piú spontaneo e proprio del latino.

La nostra letteratura ha cosí il suo iniziale documento (il Cantico di frate sole o delle creature, scritto da san Francesco intorno al 1223, negli ultimi anni della sua vita) ad opera della piú grande personalità religiosa del Duecento, sulla spinta di una grande passione, che investiva larga parte degli uomini del tempo, e d’altra parte tutt’altro che in forme rozze, stentate, incolte. Ché san Francesco era uomo di cultura e di esperienza letteraria e, se nella sua gioventú mondana e fin dissipata (quale gli era permessa dalla sua condizione sociale-economica di figlio di un ricco mercante, Pietro di Bernardone, in un comune dominato dalla borghesia) fu educato in maniera raffinata (sapeva di musica e conosceva il latino, la letteratura francese dei romanzi epici e cavallereschi), dopo la sua conversione (seguita alla prigionia nelle carceri di Perugia, nel 1204, come cavaliere dell’esercito assisano sconfitto dal maggiore comune vicino) egli estese certamente le sue letture evangeliche e bibliche in latino: in latino redasse le regole del suo ordine (approvate nel 1210 da Innocenzo III e, dopo un viaggio del santo in Terrasanta e in Egitto, nel 1223, da Onorio III), fondate sulla povertà assoluta, sulla rinuncia ai beni mondani, sulla vita condotta sull’esempio di Cristo, sulla preghiera e sulla predicazione. E dalla Bibbia ritrasse modelli e spunti per il suo Cantico (il salmo 98 di David e il cantico di Daniele e dei tre fanciulli).

Questo è cosí insieme una voce poetica (la sua intenzione di lode e di preghiera, di esortazione non toglie affatto che tutto ciò si realizzi con un potente afflato poetico) che sorge da una forte tensione religiosa centrale nello spirito del tempo (e particolarmente della intensa vita religiosa umbra, che venne a sua volta potentemente rafforzata dalla predicazione francescana) e che è energicamente vissuta in una grande personalità dotata di fantasia, di esperienza, di cultura: le qualità senza cui non nasce la vera poesia.

Specie se si accetti la spiegazione del «per» (la preposizione che si ripete dall’inizio alla fine del cantico: «laudato si, mi signore, per frate foco» ecc.) nel senso del «par» francese («da» preposizione di agente) o anche in quello di «per mezzo di» (nel primo caso la lode di Dio è affidata direttamente alle creature che il santo solo invita alla lode, nel secondo caso il santo loda Dio per mezzo delle sue creature, lodando le sue creature e invitandole insieme alla lode), il Cantico è un possente incontro di voce personale e di coro, saldato, in alto, dal riferimento a Dio, che nella concezione di san Francesco e del suo tempo è il termine assoluto di ogni bene e di ogni vita e, in basso, dalla fraternità delle creature animate e inanimate.

È qui soprattutto che batte l’accento religioso e poetico; il senso della comune fraternità e filialità rispetto a Dio di tutto ciò che è creato. Da ciò non deriva una specie di panteismo lontano dallo spirito medievale e francescano, ma un doppio piano (Dio e le sue creature) saldato dall’amore, mentre il piano inferiore, creaturale, è internamente saldato dalla fraternità che lega ed uguaglia tutte le manifestazioni della natura e dell’umanità.

Tutto è poi pervaso da un sentimento come di realtà e di fantasia che nasce dalla realtà e dall’amore di questa e che pone il Cantico in una dimensione di forte vitalità, di amore per la vita e non in un puro ascetismo negatore della vita. Non c’è un «no» alla vita, ma un «sí» ad una vita rinnovata dalla fraternità, dall’amore, dalla rinunzia al superfluo. È la poesia delle cose essenziali ed autentiche e della loro bellezza senza ornamenti caduchi.

Sicché il giovane dovrà disporsi a capire la poesia del Cantico non tanto per i particolari degustati e preziosi, quanto per il loro sobrio e potente rapporto (ed essi stessi sono sobri e potenti come i tratti energici dell’arte pittorica e della scultura romanica) con lo spirito animatore di lode, di dichiarazione di amore e di fraternità del Cantico.

È uno spirito che produce poesia e insieme si converte in disposizione di vita e di azione, che trovò prosecuzione nel francescanesimo militante e soprattutto nelle sue forme piú popolari, poi sconfessate dalla Chiesa.

E a questo proposito si ricordi ancora che, se san Francesco non prese certo posizioni politiche pratiche dato il suo atteggiamento di non violenza, di amore per tutti, egli sicuramente guardò con simpatia agli strati piú popolari e non è senza significato che egli dette il nome di minori ai suoi frati prendendolo da quello del partito popolare della sua città.

3. I Laudari

Mentre la personalità di san Francesco e la sua vita e predicazione promovevano una produzione in latino, e poi in volgare, diretta a tramandarne i casi esemplari e le virtú (si ricordino almeno le Mistiche nozze di san Francesco con madonna povertà in latino, le biografie latine di san Francesco dovute a san Bonaventura e a Tommaso da Celano, e gli Actus beati Francisci et sociorum eius del cui volgarizzamento, intitolato Fioretti di san Francesco, di fine Trecento, torneremo a parlare in altro capitolo), lo spirito francescano e la diffusione delle profezie del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, che annunciava per il 1260 la fine del mondo e predicava la povertà, l’uguaglianza, il rinnovamento della vita dei primi cristiani, suscitavano ancora in Umbria una intensa ripresa di vita religiosa popolare a metà del secolo.

Si tratta di quel vasto movimento religioso popolare detto dei disciplinati o flagellanti (e già preceduto dal movimento dell’«alleluja» nell’Italia settentrionale nel 1233) dalla flagellazione con cui folle intere di fedeli si punivano esasperando certo ascetismo già vivo nel francescanesimo, ma ora reso piú preminente in funzione delle idee di una prossima fine del mondo alla quale occorreva prepararsi abbandonando la vita e le occupazioni e mortificando la carne e gli istinti peccaminosi.

Da questo movimento, iniziato a Perugia nel 1256 dall’eremita Ranieri Fasani, derivò l’uso di cantare componimenti in volgare, detti «laude», che venne precisato e continuato per tutto il Duecento e il Trecento dalle «confraternite» o «compagnie» religiose che prosperarono nei comuni dell’Umbria, delle Marche, della Toscana, degli Abruzzi in rapporto a categorie di mestiere ed «arti», in cui il legame professionale si estendeva ad un legame religioso.

Si raccolsero cosí i «laudari» e la stessa composizione delle «laude» assunse, pur nella sua prevalente anonimità, un carattere sempre piú colto e legato ad una preparazione specifica degli autori.

Sicché le laude vengono assumendo sempre piú un loro carattere letterario ed artistico, mentre si coloriscono di caratteristiche di cultura, di linguaggio, di elementi religiosi, sociali e politici (ad esempio la laude assisana è piú popolare-ereticheggiante, la lauda perugina piú guelfa e domenicana) a seconda delle città e delle regioni in cui vengono prodotte.

4. Jacopone da Todi

Ma pur nel notevole livello espressivo di molte laude ducentesche e trecentesche che meritano sempre piú l’attenzione degli studiosi come documenti artistici e non solo come documenti di lingua, di pietà religiosa, di costume locale, il solo scrittore di laude che raggiunga la grande poesia, intensificando, con la sua drammatica esperienza, con la sua robusta fantasia e con la stessa base culturale piú sicura e profonda, la direzione espressiva delle laude umbre, è Jacopone da Todi. Il quale, sia detto subito, è anche la maggiore personalità poetica del Duecento (vicino a lui si potrà porre solo Guido Cavalcanti in tutt’altra linea di poesia) prima della suprema presenza di Dante.

Jacopo dei Benedetti, detto Jacopone, nacque a Todi, città-comune umbro di notevole forza e prosperità, intorno al 1230 e, divenuto notaio, fece per molti anni una vita di agiato professionista, finché fu profondamente colpito, a quanto si racconta, dalla morte della moglie travolta dalla caduta del pavimento durante una festa, e dalla scoperta sul suo corpo di un feroce cilizio con cui essa segretamente si mortificava pur seguendo il marito nella sua vita mondana. Si fece francescano e aderí, con il suo spirito estremistico, alla frazione dei francescani piú rigidi, gli spirituali, e fra questi ebbe una posizione particolarmente rilevante e combattiva, partecipando insieme ai cardinali Pietro e Jacopo Colonna ad una vera e propria insurrezione contro il Papa Bonifazio VIII (il papa che sarà cosí odiato anche da Dante) che essi dichiararono scomunicato e decaduto (il manifesto di Longhezza del 1297). Ma i Colonna furono sconfitti a Palestrina e Jacopone venne scomunicato e tenuto in dura prigionia fino alla morte di Bonifazio VIII (1303). Morí tre anni dopo, nel 1306, in un piccolo monastero, a Collazzone.

Lo strenuo impegno combattivo di Jacopone nella lotta contro Bonifazio VIII ben dimostra già di per sé che la vecchia immagine del poeta umbro come una specie di mistico folle, privo di ogni precisa direzione e di ogni ideale (e, insieme, privo di cultura), è completamente sbagliata ed è legata anche ad una incomprensione storica, da parte degli studiosi dell’ultimo Ottocento positivistico, dell’accesa situazione spirituale in cui si forma ed esprime Jacopone.

Situazione nella quale la salvezza dell’anima, la credenza nell’aldilà, la scelta del modo di vita in rapporto a quella salvezza e a quella fede, la volontà di assimilare la propria vita a quella di Cristo fino al suo martirio, erano motivi profondamente vissuti e le prese di posizione, le passioni religiose avevano la stessa forza della passione politica e spesso a quella si mescolavano. Come avviene nel caso di Jacopone che prende partito, si aggrega alla parte colonnese nella lotta contro Bonifazio VIII e mostra cosí, come dicevo, di avere idee e volontà precise di uomo entusiasta, estremista, e non perciò folle e vaneggiante.

E la sua poesia trae forza da quelle persuase posizioni in cui Jacopone porta tutta la violenza del suo eccezionale temperamento e dell’uomo di parte, ricavandone aspre, vigorosissime satire e invettive contro il papa odiato, contro la sua avidità mondana, contro le sue subdole arti politiche.

Nella sua accesa fantasia e passione papa Bonifazio, che tradisce la propria altissima missione spirituale di vicario di Cristo, diviene appunto l’opposto del supremo modello della vita cristiana, che è per Jacopone assoluta rinuncia ai beni mondani, mortificazione delle tentazioni dei sensi, amore di Dio e opere attuate per la salvezza dell’anima e per la conquista del Paradiso.

La povertà, predicata da san Francesco, diviene anche piú violentemente per Jacopone la condizione indispensabile di ogni virtú cristiana e, rispetto a san Francesco, cresce in lui – a causa anche dell’esperienza storica delle lotte interne fra gli stessi francescani e di un papato tutto politico e mondano come quello di Bonifazio VIII – il violento contrasto fra positivo e negativo, fra religione, virtú cristiana e peccati, scellerate passioni mondane.

Queste ultime vengono assalite in molte delle poesie jacoponiche (tutte chiamate laude secondo il nome dei componimenti religiosi umbri) con una violenza carica di realismo, identificate e chiamate in causa con i loro caratteri piú turpi, resi piú evidenti e forzati con paragoni che utilizzano i termini piú duri della realtà e del linguaggio.

Grandissima è la forza inventiva e fantastica con cui Jacopone infierisce contro il corpo peccatore, contro la donna e la sua natura tentatrice, contro il ricco insaziabile, contro i vizi e lo stesso desiderio di fama che suscita egoismo e distrae dai veri scopi della vita. Tanto che, mentre egli, con il suo scherno violento ed amaro, dirà in una laude che raccomanda il proprio nome al somaro che va ragliando, in un’altra attaccherà la stessa cultura e filosofia che a lui appaiono vani ornamenti di fronte alla vera filosofia che è l’immediata unione con Dio, l’imitazione di Cristo, l’esercizio della povertà e della rinuncia.

Eppure anche questo attacco non è prova di una rozzezza incolta, ché poi Jacopone nel suo stesso linguaggio e nel suo ardente argomentare mostra una linea costruttiva nutrita di esperienza intellettuale e chiare tracce del linguaggio giuridico e filosofico appreso nella scuola e nei libri (si è pensato che egli abbia studiato all’Università di Bologna).

La verità è che egli, tutt’altro che rozzo e incolto (cosí come il suo linguaggio che è il volgare di Todi nobilitato e reso illustre da un uomo di cultura), ha una poetica, una direzione di espressione che mira piú alla violenza, alla rude efficacia espressiva, che non all’armonia e all’educata raffinatezza.

Sicché, da una parte, anche quando si apre a cantare la dolcezza ineffabile del Paradiso, le lodi di Cristo e di sua madre, o la bellezza del giubilo mistico, egli lo fa con una dolcezza che mantiene sempre qualcosa di rude, di violento, di scabro, di energico (si rilegga almeno la breve e intensissima lauda O jubilo del core che fai tremar d’amore).

E, d’altra parte, anche nelle laude piú prese nel vortice del misticismo e del linguaggio ineffabile o della violenta invettiva contro il peccato e i peccatori, non manca mai una forte linea costruttiva, che sorregge tutto il componimento ed è nuova prova di una poesia matura e di una personalità robusta e costruita nella esperienza e nella cultura. Come il suo linguaggio, pieno di latinismi e di forme romanze che denotano un’ampia esperienza di lettore, ha sempre una sua fondamentale e originale direzione di sinteticità lirica e significante, di pienezza realistico-fantastica, e non può essere inteso come un grido incerto di un mistico folle e confuso.

Basta poi rivolgersi, in latino, al grandioso inno del Dies irae e, in volgare, alla potente lauda dialogata Il pianto della Madonna, per avere i documenti piú espliciti delle grandi qualità poetiche di Jacopone, vero poeta e, ripeto, il maggiore della nostra letteratura prima di Dante.

Nell’inno latino il cupo, severo sentimento della inesorabile giustizia divina nel giudizio universale, con cui fortemente concorda lo spirito severo, intransigente di Jacopone, si traduce nella formidabile sequenza delle strofe incalzanti e nel ritmo scandito e ripetuto con la convinzione e l’ispirazione di chi sa di esprimere una verità universale, un sentimento dominante del suo tempo.

Nella lauda, che dà uno dei primi spunti alle laude drammatiche posteriori, la potente fantasia costruttiva di Jacopone compone insieme, su di uno sfondo nudo e assoluto, i personaggi e la storia con una consequenziarietà stringente, senza pause e senza inutili riempitivi. Il realismo che giunge al massimo nella descrizione delle pene, l’intensa severa tenerezza che diventa canto nella nenia della Madonna sul tema del «figlio», l’implacabile ritmo dell’azione espressa dalla voce sicura e decisa del messaggero si incontrano e si fondono in un insieme unitario e articolato di suprema potenza e chiarezza che fa pensare alla forza della pittura di un Cimabue.

5. Poesia didattica del Nord

Assai piú povere di fantasia e di maturità spirituale appaiono in confronto alla poesia di Jacopone quei componimenti di ispirazione religiosa e morale che nel corso del Duecento troviamo nella piú incerta e composita cultura e letteratura dell’Italia settentrionale e della sua zona piú avanzata che è costituita dalla Lombardia e dal Veneto.

Li ricordiamo anche per indicare come la scena della letteratura italiana del Duecento sia vasta (e meglio si vedrà poi parlando della lirica siciliana, dei romanzi franco-veneti, del Milione di Marco Polo, nonché, naturalmente, della maggiore regione letteraria che a metà Duecento diventa la Toscana) e per mostrare come certi elementi di fondo della civiltà ducentesca, come quello religioso, non siano esclusivi di una regione, l’Umbria, ma circolino e promuovano espressioni letterarie anche altrove.

E tuttavia occorrerà pur ribadire che la letteratura religiosa umbra fra san Francesco e la diffusione della lauda, e fra questa e le grandi laude di Jacopone, ha indubbiamente un rilievo e un peso maggiore, una maggiore compattezza, una tensione generale piú forte che si traduce al sommo in veri e propri capolavori poetici; laddove nella Lombardia e nelle zone venete piú legate alla Lombardia (soprattutto Verona) la notevole vita religiosa, di tipo prevalentemente ereticale, ha un’intonazione piú modestamente pratica, morale, una minore vivacità sentimentale e fantastica, quasi un che di piú arretrato e antiquato e prosaico.

Come può vedersi non solo nei prolissi e pedestri scrittori moraleggianti di primo Duecento (Uguccione da Lodi e Girardo Patecchio da Cremona, Ugo di Pers e Pietro da Barsegapè), ma nei piú tardi e certo interessanti e individuati scrittori del secondo Duecento: Bonvesin da la Riva (di Milano, 1240-1315 circa), che interessa soprattutto per il maggiore equilibrio fra religione e preoccupazioni di comportamento mondano (sia in quella specie di guida di Milano che è, in latino, il De magnalibus urbis Mediolani, sia nelle Cinquanta cortesie da tavola, specie di galateo medievale, sia nel Trattato dei mesi, sia soprattutto nel Libro delle tre scritture che tratta dell’inferno e del paradiso e della passione di Cristo), e Giacomino da Verona, frate francescano, autore di due poemetti, De Babylonia civitate infernali e De Jerusalem celesti, in cui in maniera ingenua si descrivono l’inferno, con un realismo rozzo e sommario, e il paradiso, con un colore candido e fiabesco piú gustoso.